Sona campane, musi moddhi
Leccesi sona-campane» (Leccesi campanari), ed è un epiteto che riesce a raccontare, al di là del significato beffardo, un frammento di storia cittadina perché allora gli edifici attualmente destinati a Lecce dunque, soprattutto nel XVII e nel XVIII secolo era, molto più di ora, una città a funzioni civili e sconsacrati erano aperti al Era ovvio che in tutte le ore della giornata si sentisse nell’aria il rintocco delle campane. E se c’erano le campane dovevano esserci i campanari.
Per avere un idea dell’incredibile numero di edifici sacri basta percorrere il tratto di strada che separa il carcere di Villa Bob6 da piazza Sant’Oronzo. L’attuale sede della casa penale era il convento dei padri ·dell’Ordine di San Vincenzo (erano francesi, e dal loro intercalare «Bon, bon» diventarono i «padri Bob6»); superato l’arco di Porta Rudiae, immediatamente sulla destra, si incontra la chiesa del Rosario con l’allora annesso convento dei Domenicani (oggi Accademia di Belle Arti); a pochi passi l’una dall’altra si trovano le chiese di Sant’Anna, Santa Teresa, Santa Elisabetta, il Duomo, la chiesa e il convento dei padri Teatini; il palazzo del vecchio tribunale era il convento dei Gesuiti, mentre l’attuale municipio era sede di un altro convento, quello di 5. Maria degli Angiolilhi. In quasi tutte le strade della Lecce seicentesca e settecentesca si trovava un luogo di culto, perciò quando ci si volle prendere beffa dei Leccesi fu facile ricorrere alla campana, oggetto-simbolo della città. Tuttavia, l’epiteto «sona-campane» andava ben oltre il· senso letterale dell’espressione, poichè con esso si intendeva dire che i Leccesi erano anche portati all’adulazione, a parlare sempre in maniera encomiastica, ma quasi sempre ipocrita. «Sona-campane» quindi per indicare gente poco sincera, tesa a esaltare gli altri ma solo per conquistarne le simpatie e i favori. Il nomignolo, pur essendo frutto della solita maldicenza, ha tuttavia un certo fondamento di verità.
Lecce, infatti, proprio per la presenza di tanti conventi, di tante chiese e di tanti ordini religiosi era anche un importante centro economico per via delle grandi proprietà che chiese, conventi e ordini possedevano. La città, inoltre, per il ruolo di capoluogo di un immenso territorio (comprendeva allora anche le province di Brindisi e di Taranto ed era praticamente la seconda capitale del Regno di Napoli) ospitava le grandi famiglie aristocratiche e feudali che esercitavano ancora un grande prestigio e perciò un grande potere sulla gente. La quale doveva pur difendersi, e non possedendo altri strumenti utilizzava quello dell’adulazione di facciata. Come dire, tanto di cappello a nobili e preti purché ci lascino vivere in pace. «Sona-campane», perciò, anche in questo caso si riferisce a una reale situazione storica. Ma Lecce, secondo la solita maldicenza, aveva anche altre tre prerogative: «Tene lu castieddhu senza cannuni, le funtane senza acqua e le zitelle cu lu latte a mpiettu» (Ha il castello senza cannoni, le fontane senza acqua e le zitelle con il latte in petto). Che a Lecce ci fossero donne non sposate che allattavano è probabile (le balie sono sempre esistite), ma che il castello fosse privo di cannoni e le fontane di acqua era senz’altro vero.
Lecce, infatti, non fu mai una città fortificata nel senso autentico della parola, per cui il castello di Carlo V più che di una vera e propria fortezza ebbe funzioni di sede della guarnigione e di comando della polizia. Non essendo perciò utilizzato nella difesa della città, il castello era privo di cannone. Le fontane senz’acqua furono sempre una prerogativa della Lecce scomparsa. Fontane artificiali, tuttavia, ne furono costruite molte: nel 1608 ne fu eretta una nel Parco in onore di donna Caterina, moglie di Giuseppe Acquaviva duca di Noci; nello stesso periodo il Comune ne innalzò una altra maestosa in piazza 5. Oronzo di fronte alla chiesa della Madonna della Grazia in cui erano rappresentate le insegne della città, la lupa e il leccio, opera di Francesco Antonio Zimbalo. Sempre nella stessa piazza, nel 1678, fu costruita un’altra fontana con la statua equestre di Carlo TI opera del famoso Giuseppe Zimbalo. Ma tutte queste fontane non avevano acqua o l’avevano per poche ore e non tutti i giorni. Una storia antica, probabilmente conosciuta da sempre se vanno presi sul serio i versi latini dedicati a Lecce: «Aquae non currunt, arbores non crescunt, foeininae non erubescunt» (Non scorrono le acque; non crescono gli alberi, e le donne non arrosswcono). Nell’antichità non avevano un gran concetto dei Leccesi. Ma questi non se ne curavano più di tanto e probabilmente risposero agli invasori latini con la stessa frase con cui accolsero una sessantina di anni fa Achille Starace venuto m visita nella solita pompa magna: «Lecce città d’arte se nde futte de ci rria e de ci parte» (Lecce città d’arte se ne fotte di chi arriva e di chi parte). Forse anche per questo i Leccesi sono chiamati pure «musi moddhi» (musi molli), come per dire gente pacifica e incapace di venire alle mani. I Leccesi non avevano bisogno di liquidare le controversie ricorrendo ai muscoli: era sufficiente la lingua, che anche in questo caso ha fatto più vittime della spada.
Alcuni soprannomi individuali
Ascia (un operaio che adoperava appunto l’ascia). Bo-Bo (soprannome d’un sacerdote vissuto nel XVIII secolo). Cannoncinu pezza an culu (un povero canonico del Duomo). Capitecotula (popolano con la testa sempre ciondolante). Checchinella (diminutivo di Francesca, una barbona vissuta fino a pochi anni fa). Don Limone (personaggio che, sperperate le sostanze ereditate, viveva di squallidi espedienti). Don-Luigginu-te-li-marionétte (fotografo ambulante vissuto sino agli anni Cinquanta; di giorno solitamente sostava nella villa comunale, impiegando all’incirca tutta la mattinata per la messa in posa d’una foto; di sera poi si trasformava in cantastorie, regista e manovratore di marionette sotto le mura del castello di Carlo V). Don Peppinu La Pinna Pò (nobile decaduto, solitamente passeggiava in piazza Sant’Oronzo, sostando soprattutto nei pressi delle «Quattro spezierie». Qui, portando con sé penna e calamaio, svolgeva la funzione di scrivano su commissione, meritandosi così la fama di uomo che tutto può con la penna). Gioggiolina (nella villa comunale vendeva dolciumi tipici, le «fanfullicchie»Ì. Lu-férma-fèrma (un bighellone il cui soprannome derivò dalla sua abitudine d’esclamare ad ogni piè sospinto – durante le sue instancabili passeggiate con gli amici – «ferma, fermai», per poter più facilmente raccontare a chi gli era vicino aneddoti sulle persone che via via incontrava). Lu Maggi te li Rasuli (il Maggi dei rasoi, per distinguerlo da altri cognomi omonimi;, ed anche perché esercitava il mestiere di barbiere e d’arrotino). Lu-sétte-corne (perché vendeva corbezzoli raccolti a San Cataldo; o anche perché, secondo un pettegolezzo mal provato, sarebbe stato ripetutamente tradito da moglie, madre, figlie e sorelle). Mario Pieticotti (per i suoi enormi piedi, tanto che – non potendo trovare facilmente scarpe della misura appropriata -, per camuffarti, se li dipingeva con vernice nera. Lavorava nel cimitero, dove lnnaffiava i fiori delle tombe). Ménza-ricchia (gestiva un locale nei pressi della chiesa di Santa Maria dell’ldria). Mésciu-Chiccu-nasone (famoso cartapestaio leccese dal naso smisurato). Lu piscia-conche (dalla sua abitudine, quand’era ubriaco, di passeggiare durante la notte per le vie della città cantando romanze e ornando nelle buche stradali che gli capitavano a tiro). Papà-Ia-ògghiu (così detto in quanto, a causa delle enormi dimensioni del suo pene, gli era interdetto d’avere rapporti sessuali; perciò, sempre voglioso, pensando ossessivamente alla donna, rivolgendosi al padre soleva dire: «Papà, la voglio!»).